
Accusata di “collaborazione” con il
nemico, Mata Hari viene arrestata dalla polizia francese nel febbraio del 1917 e
finisce davanti al plotone di esecuzione alle ore 6 del mattino del 15 ottobre.
Al processo venne definita una delle spie più pericolose, anche se molti storici
ultimamente hanno sostenuto che Mata Hari non fosse una vera spia, ma solo una
donna viziata e poco intelligente, che ad un certo punto della sua vita aveva
creduto di poter trarre dei vantaggi non indifferenti.
Al suo primo interrogatorio era presente anche l’avvocato difensore, maitre
Clunet, vecchio amico ed ex amante della ballerina che ormai molto avanti con
l’età (74 anni) non riuscì a districarsi sul terreno della giustizia militare ed
il suo apporto fu quindi del tutto trascurabile, anche perché il codice
prescriveva che il difensore potesse assistere soltanto al primo e all’ultimo
interrogatorio; negli altri dodici che si svolsero nell’arco di quattro mesi,
l’inquirente ebbe l’imputata alla sua mercé senza alcuna assistenza legale.

L’inchiesta non partì
sotto buoni auspici per l’accusa, perché il capitano Pierre Bouchardon, 46 anni,
proveniente da Rouen dove aveva svolto per anni brillantemente l’attività di
pubblico ministero e la cui tecnica preferita consisteva nel mettere in
difficoltà gli imputati con lunghi silenzi e passeggiate mute su e giù per la
stanza, disponeva di un magro fascicolo con la scritta “Affaire Zelle – Mata
Hari”, contenente soltanto i rapporti di una serie di pedinamenti e i risultati
della perquisizione nella stanza della donna all’Elysèe Palace dove alloggiava.
Mata Hari sembrava sicura di sé e non ebbe nessuna difficoltà ad ammettere i
suoi contatti, più o meno intimi, con militari alleati: un maggiore belga, un
capitano russo, un altro capitano italiano, un aviatore americano e un maggiore
montenegrino, per non parlare del plotone di ufficiali inglesi, francesi e
irlandesi. Durante l’interrogatorio affermò di adorare gli ufficiali e che
preferiva essere l’amante di uno di loro piuttosto che quella di un banchiere
carico di milioni.

L’accusa brancolava nel
buio fino a quando non riuscì ad entrare in possesso di una serie di telegrammi
scambiati fra l’ambasciata tedesca a Madrid ed il servizio IIIb dello spionaggio
a Berlino; i dispacci non citavano Mata Hari per nome, ma l’identificazione era
trasparente. Presa in contropiede, Margaretha annaspò, dapprima tentò di
giocarsi la carta dell’errore di persona, poi di fronte ai dettagli che la
identificavano senza possibilità di dubbio, ripiegò su una mezza ammissione; il
21 maggio 1927 Mata Hari decise che era giunta l’ora di confessare tutto quello
che sapeva, anche se alla fine quel tutto era veramente poca cosa. Ammise di
aver ricevuto diverse somme di denaro da persone tedesche, alcune a scopo di
risarcimento per torti da lei subiti. altre di dubbia provenienza alle quali non
sapeva darne una risposta plausibile, ma che sicuramente questo non voleva
significare il suo tradimento verso la Francia. Stava di fatto che ormai
Bouchardon le aveva tessuto attorno una fitta rete di accuse gravissime e che
quindi il caso era pronto per il tribunale militare.

Durante il processo, svoltosi a porte chiuse per ragioni di segretezza, l’accusa
venne sostenuta dal tenente Andrè Mornet (che in futuro avrà poi una
brillantissima carriera di pubblico ministero); pochissimi i testimoni, molti
assenti giustificati, in meno di un giorno e mezzo si arrivò a stilare il testo
con le otto domande di accusa, su cui i giurati avrebbero dovuto pronunciarsi.
La riunione dei sette giurati in camera di consiglio durò circa mezz’ora e anche
se non ci fu l’unanimità su alcuni punti, unanime fu la condanna a morte.
Nel pomeriggio del 25 luglio 1917 la corte la condannò a morte ritenendola
colpevole di alto tradimento e nemmeno la farsa del processo d’appello (durò
esattamente 15 minuti), revocò la sentenza originaria.
In seguito venne respinta anche una richiesta di grazia inoltrata da una
delegazione olandese; paradossale fu che il rifiuto di questa richiesta si seppe
soltanto a fucilazione avvenuta:
Il suo corpo non reclamato da nessuno, finì sul tavolo anatomico di un ospedale
parigino e la sua tomba è rimasta ignota. Tutti i suoi beni finirono all’asta il
30 gennaio 1918 e una buona parte vennero incamerati dallo Stato per le spese
processuali.