
Il Carnevale Romano occupa
un posto di rilievo fra le tradizioni popolari più importanti della città.
Questa ricorrenza consisteva in una grande festa pubblica che durava otto giorni
e si chiudeva la notte del Martedì Grasso, con l'avvento della Quaresima.
Durante il Rinascimento il Carnevale Romano superò in fama persino quello di
Venezia.
I festeggiamenti cominciavano undici giorni prima, di sabato, ma il venerdì e la
domenica erano vietate le corse e le mascherate, così i giorni effettivi si
riducevano a otto. Solo durante questo breve periodo era consentita la
trasgressione in materia di ordine pubblico.
A Carnevale ci si poteva prendere qualche libertà, anche verso la classe
dirigente (clero e nobili), che in altri periodi dell'anno sarebbero costate la
galera. Il primo luogo dei festeggiamenti del Carnevale Romano fu piazza Navona,
allora platea in Agone, dove sin dal Medioevo si svolgevano tauromachie e tornei
di cavalieri.
Seguì il Monte Testaccio, a quei tempi area pressoché disabitata; qui, oltre ai
divertimenti, si praticava una tradizione abbastanza cruenta detta la ruzzica de
li porci. In cima alla collina artificiale venivano allestiti carretti con sopra
diversi maiali vivi, che poi venivano fatti rotolare lungo la ripida fiancata;
nella corsa i carri si rovesciavano e si fracassavano, mentre a valle si
radunava una gran folla che si contendeva gli animali.

Verso la metà del '400 i
festeggiamenti cambiarono sede per ordine di papa Paolo II, che essendo
veneziano colse l'occasione per valorizzare il suo Palazzo Venezia appena
costruito, ovviamente in piazza Venezia, a ridosso della basilica di S.Marco.
Come teatro delle feste carnascialesche fu scelta la via Lata, l’attuale via del
Corso (periferia nord della Roma rinascimentale), che ancor prima, in epoca
romana, era stata il tratto urbano della via Flaminia. Qui aveva luogo una corsa
a cui prendevano parte zoppi, deformi, nani ed ebrei anziani. Il popolo gioiva
alla vista degli strani competitori e non risparmiava loro pesanti battute e il
lancio di oggetti.

Fu Clemente IX, che nel
1667 mise fine a questo assurdo spettacolo.
Le sfilate di maschere erano rappresentate dai personaggi molto in voga della
Commedia dell'Arte, come Pulcinella o Arlecchino, insieme ai balli pubblici che
duravano tutta la notte, con i lanci dei confetti (pallottole di gesso colorato)
e di sbruffi (gli attuali coriandoli).

Si arrivava così all'atto
conclusivo del Carnevale, la sera del Martedì Grasso, con la suggestiva Corsa
dei Moccoletti, che consisteva nel reggere candele, o lumini e tentando, nel
correre, di spengere le fiammelle altrui. Di giorno erano in molti a
travestirsi. Dopo il tramonto era ancora lecito farlo, ma senza indossare
maschere sul volto, per motivi di pubblica sicurezza. Le maschere, di cera, o
cartapesta, erano molto popolari, persino i sacerdoti, i frati e monache
facevano baldoria, anche se nell'ambito dei rispettivi conventi (non in strada);
erano ammessi musica, balli, pranzi sontuosi e anche qualche innocente
travestimento.
Alle monache di clausura, però, era consentito mascherarsi solo con gli abiti
dei propri confessori!

L'evento più atteso era la
Corsa dei Barberi, cioè dei cavalli berberi; una razza non molto alta, ma
muscolosa; questa aveva sostituito nel favore popolare la corsa ormai vietata
degli storpi. Si ripeteva ben otto volte, quanti erano i giorni di feste e si
svolgeva poco prima del tramonto.
I barberi venivano lanciati senza fantino da piazza del Popolo e raggiungevano a
tutta velocità l'estremità opposta del Corso, piazza Venezia, allora assai più
piccola dell'enorme spiazzo che è oggi, dove si tendeva un telone per fermare i
cavalli, mentre i barbareschi si gettavano tra di loro tentando di bloccarli a
viva forza (cosiddetta ripresa dei barberi). Il proprietario del cavallo
vincitore riceveva in premio un palio, cioè un drappo di stoffa preziosa e
ricamata, le cui spese erano a carico degli ebrei.

A rendere pericolosa per
gli spettatori la stessa corsa era la strettezza della via, colma di gente. Nel
1874, durante la corsa un giovane improvvisamente attraversò la strada mentre
sopraggiungeva un cavallo e morì proprio sotto gli occhi dei reali, così
Vittorio Emanuele II abolì la manifestazione, che da allora non fu mai più
ripetuta. Questo segnò la fine della corsa e anche del Carnevale romano.