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Se dovessi dividere la tua vita in tre
decadi, mi diresti un fatto saliente per ogni decade?
Incominciamo
subito con una bella domanda.
La prima decade penso che sia quella in cui ho cominciato a lavorare nel bar di
mio padre, quando ho lasciato gli studi, inopinatamente, deludendo familiari
amici e tutti quelli che pensavano che per me sarebbe stato molto facile
arrivare all’università e oltre. Io non ero pronto a livello di maturità, di
forza interiore e di fiducia in me stesso e quindi mi sono rifugiato nel bar.
Sono cresciuto con il bar Mio padre mi teneva dietro la cassa dentro il
passeggino, non avevo ancora quindici anni quando ho cominciato a lavorare. Ho
passato così l’adolescenza, questo ha cambiato il corso della mia vita, come in
“Sliding doors”, se avessi continuato gli studi, magari adesso, chissà, dove
sarei…
La seconda decade è coincisa con la nascita della prima bambina, un grande
cambiamento della mia vita, ero giovanissimo e mi sono buttato a capofitto nel
ruolo di papà senza esperienza, ma con molto entusiasmo.
La terza decade è quando ho iniziato a scrivere. Quando ho avuto l’idea di
diventare uno scrittore, ero abbastanza maturo da intraprendere questa strada,
che poi mi sono reso conto che era quella che cercavo; la mia via.
Come nasce la tua passione per la
scrittura?
Sono sempre stato un grande lettore e
fin da ragazzino ho amato tantissimo la lettura, ma prima di dedicarmi a questa
passione, scrivevo solo cartoline estive con frasi tipo: “Buone Vacanze da
Diego”…
E’ stato come lo scoppio del cannone al Gianicolo a mezzogiorno; una cosa
improvvisa in seguito a un viaggio fatto in Inghilterra;, un viaggio un pò
folle. Sono andato a vedere un posto che conoscevo solo per averne letto in un
romanzo, volevo verificare se effettivamente era così bello. Ho preso un giorno
di vacanza dal mio lavoro e ho fatto le canoniche due ore e mezzo di volo fino a
Londra, sei ore di treno, un’ora e mezza su un pullman scassatissimo e sono
arrivato a Penzance in Cornovaglia, nella punta estrema dell’Inghilterra. Lì ho
avuto una specie di folgorazione, come se in questo posto ci fossi già stato, mi
ha emozionato è stato come un dejà vu, mi ha lasciato dentro delle emozioni
fortissime; appena sono rientrato a Roma, ho sentito il bisogno di scriverle su
pagine. Paesaggi bellissimi, scogliere meravigliose, così ho cominciato a
raccontare di questo viaggio, delle emozioni che ho provato nel vedere quelle
bellezze della natura e devo averle scritte bene queste emozioni, perché il mio
primo romanzo “Leonor” ha fatto diventare quello che pensavo fosse un mio hobby
personale, un hobby per tutti, da quel momento non mi sono più fermato, fino ad
arrivare all’ultimo libro pubblicato.
Puoi dirci da cosa prendi spunto per le
tue opere?
I miei romanzi sono cinque in tutto Il
primo ha la sua importanza, perché ha sancito la mia nascita come scrittore. Il
secondo è ambientato nella campagna senese, anche se poi il protagonista
maschile è del Minnesota; una componente straniera che cerco di inserire in ogni
mio romanzo.
La mia fascinazione per l’America nasce dai romanzi che ho letto, posti che
posso solo immaginare, o vedere in foto. Questa voglia di conoscere, di fare un
viaggio alla scoperta dell’America, mi aiuterebbe ad apprezzare di più me
stesso, sarebbe un’iniezione di fiducia per la mia attività di scrittore.
La creazione nasce da situazioni casuali, sfogliando una rivista sui parchi
naturali americani, trovai la foto di una ragazza con una divisa da guardia
forestale, come al solito ho immaginato quale vita potesse avere quella ragazza,
come avesse potuto diventare una ranger, poi tutta la storia ha cominciato a
dipanarsi come una ragnatela.
Nel caso della narcolessia, mi riferisco al libro “Il cardo di Yosemite”, ho
visto un film, dove s’ironizzava molto su questa tematica, così mi sono
informato sulla malattia e ho iniziato a scriverne, proprio per dare al mio
romanzo una ragione importante, come scoperta di una malattia poco conosciuta.
Ho parlato con una mamma che aveva paura di tenere in braccio il suo bambino,
perché vedeva delle mani che le strappavano di dosso il bambino.
Potete immaginare gli effetti drammatici! Ho cercato di far capire alle persone,
che malattie cosi dette rare, possono essere distruttive per la vita di una
persona.
Hai ricevuto premi per le tue opere? Quale
emozione si cela nell'anima, ogniqualvolta ci si accinge ad essere premiati,
veder riconosciuto un proprio lavoro artistico?
L’emozione è sempre fortissima, ricordo
quando il mio libro primigenio, “Leonor”, si cimentava con altri delle major
della produzione italiana; il premio in lizza era “Un libro per l’estate” la
decisione a referendum popolare, votavano gli abbonati a RadiocorriereTv e
quindi, le persone che avevano avuto modo di leggere il mio libro e mi avevano
votato, ne erano rimaste entusiaste. E’ stata una splendida emozione e dopo
questo il premio “Città di Pizzo”. In un intervallo, brevissimo, mi sono trovato
dal non essere scrittore, ad essere due volte premiato, è stato difficile
rimanere con i piedi per terra, quando sono tornato a fare i caffè è stata dura.
Mi sentivo un po’ Clark Kent, un personaggio normalissimo di cui nessuno si
accorge e dietro il quale si cela Superman, un uomo dalle grandi possibilità,
dalle grandi potenzialità, che fa del bene al prossimo; io magari lo faccio
facendo passare due ore serene ai lettori. C’è questa dicotomia totale tra il
mio essere barista e scrittore, ho l’impressione di dover dividere due vite.

Parliamo del tuo libro
” L'osservatore di foglie ”, come nasce? Cosa puoi dirci circa la trama e le
dinamiche tra i vari personaggi?
Questo romanzo nasce, come quasi tutti
i miei romanzi, grazie ad un’immagine, una fotografia, che rappresenta il New
England, un paesaggio del Vermont. Nella foto c’è una distesa di aceri rossi e
gialli, che dà un effetto d’ incendio, con una donna che torna a casa a cavallo.
Questa è la copertina del romanzo. Ho trovato la foto su una rivista e ho
cominciato a lavoraci sopra con la fantasia, immaginando da dove la donna
potesse venire, dove stesse andando, chi era, quale potesse essere la sua
storia. Dentro di me è come se ci fosse una sfera con la trama, la storia
esplode improvvisamente nel cervello, quindi fluisce dai centri nervosi fino
alle mani e comincio a scrivere. La mia fortuna penso sia quella di riuscire in
poco tempo a creare questo intreccio narrativo sulla base delle immagini e sulle
sensazioni che queste mi danno. Non descrivo il paesaggio che vede il
personaggio del mio romanzo, ma ciò che prova il personaggio stesso e lo
proietto nel mio romanzo. L’osservatore di foglie ne è l’esempio lampante, c’è
un paesaggio meraviglioso, alberi che cambiano colore dalla notte al giorno, c’è
voglia di raccontare e far vedere alle persone un fenomeno naturale di rara
bellezza, che attira numerosi spettatori, tra cui questi grandi appassionati del
fenomeno, ossia, gli osservatori di foglie. La storia in breve è questa: una
ragazza coglie l’occasione di un tirocinio al NewYork Times, per fuggire
all’oppressione della sua famiglia e del suo fidanzato che non ama più. Conosce
un suo collega, Clark Kent, con cui instaura un rapporto d’amicizia che poi si
trasforma in qualche cosa di più, fin quando lei viene assunta dal giornale e
deve comunicarlo alla sua famiglia. A questo punto succede qualcosa che non
dico, altrimenti rovinerei il pathos del racconto. Un avvenimento tragico che
sconvolge la vita dei due protagonisti, l’uno in un senso e l’altra in un altro.
Questo evento costringe il protagonista maschile ad andare nel Vermont e a
fingersi un osservatore di foglie.
Il tuo romanzo è ambientato nel Vermont, una realtà culturale e sociale così
lontana dalla nostra, quali sono le motivazioni?
Kafka in “America” ci dà una delle descrizioni più' affascinanti di New York,
senza esserci mai stato, è importante per uno scrittore aver visitato i luoghi
di cui scrive, Salgari senza mai lasciare la sua terra ha descritto la Malesia….
Quando si parla di sentimenti, o di amore non c’è grande differenza
nell’ambientazione.
Penso che una delle grandi prerogative di uno scrittore sia la fantasia, che è
una finestra aperta sul mondo, con la quale supplisce alla mancanza di
spostamenti e di viaggi.
Leggendo, documentandomi e utilizzando la fantasia, dò la possibilità di far
credere al lettore di essere stato in questi posti senza esserci mai andato.
La mia passione nasce anche da altri romanzi che ho letto, è come se facessi una
sorta di visita virtuale. Le mie descrizioni sono veritiere, posso aggiungerci
qualcosa di mio, ma sono sempre studiate a tavolino.
Sono sempre stato affascinato dall’estero, con la scrittura cerco di evadere dal
mio contesto quotidiano e offro dei viaggi, che materialmente non si possono
fare, o per lavoro, o per mancanza di tempo. Ho approfittato della mia capacità
di scrittore per viaggiare e far viaggiare. Cerco di far conoscere dei posti,
come ne “Il cardo di Yosemite”, facendo una sorta di viaggio insieme ai miei
lettori.
Ecco, visto che l’abbiamo citato, puoi
parlarci in maniera più dettagliata de “Il Cardo di Yosemite”?
“Il Cardo di Yosemite” è ambientato nel
parco naturale di Yosemite, penso sia lo spazio per eccellenza. Innumerevoli
paesaggi diversi l’uno dall’altro, dalle cime alte, alla Sierra Nevada, Dal
South Carolina a Charleston, una delle più belle città del Sud dell’America.
Nel penultimo romanzo che ho scritto, c’è una forte drammaticità di fondo, la
protagonista è narcolettica. La narcolessia è una malattia del sonno, che porta
una persona a vivere una vita a metà, o a non viverla per niente; provoca un
rilascio muscolare totale che fa crollare al suolo, fa rimanere cosciente senza
muovere neanche le palpebre degli occhi. Un narcolettico non può dire “ti amo”,
perché basterebbe una piccola emozione per provocare una paralisi. La
narcolessia che io tratto è quella medica, come deficienza del sistema nervoso,
con i suoi effetti invalidanti e l’ho molto romanzata, perché è ancora più
grave. Scrivendo “Il Cardo di Yosemite”; un romanzo d’amore, ho cercato di
calarmi nel personaggio, sentendomi io narcolettico, per far trasparire sulle
pagine le sensazioni e le emozioni con le quali le persone affette da questa
patologia autodistruttiva sono costrette a convivere giorno, dopo giorno. Sono
stato molto contento e orgoglioso di essere apprezzato dal presidente
dell’associazione italiana narcolettici, che mi ha fatto capire di essere
riuscito nel mio intento.
Ti consideri un autore
romantico?
Sicuramente sì, sono uno scrittore
romantico. Nei miei libri di romantico nel senso ottocentesco del termine, ci
sono sentimenti e comportamenti che si trovano di rado nei contesti sociali dei
giorni nostri, cerco di dare valore all’idealismo e al sentimentalismo del
rapporto di coppia, una delle mie autrici preferite è Jane Austen. A me piace
far sì che i miei personaggi possano ricreare atmosfere romantiche che si sono
perse di vista.
Novalis cominciò a scrivere poesie perché aveva perso la fidanzata, da lì è nato il
romanticismo; per far sbocciare la scrittura ci deve essere qualcosa d’interiore
che si sviluppa in maniera prepotente.
Trai ispirazione anche dal cinema?
Le mie sono commedie romantiche alla
George Cooper. Mi ispiro a film come “Sabrina”, “Colazione da Tiffany”, ma anche
ai film più contemporanei come “C’è Posta per te” con Tom Hanks, o storie
drammatiche come “l’Uomo che sussurrava ai cavalli” e “I ponti di Madison County”.
Il genere dei miei romanzi è questo, sono appassionato di cinema e di questo
genere di film. Cinematografia e letteratura si fondono molto nei miei romanzi,
amo ricreare immagini con le parole, dare al lettore l’idea di trovarsi davanti
ad uno schermo. Il mio sogno è quello di vedere trasformato in sceneggiatura
cinematografica quello che ho scritto.
Porteresti un tuo libro da leggere in
un'isola sperduta?
Sinceramente, lo faccio anche adesso,
porto sempre con me il mio ultimo romanzo. Lo porto con me come un figlio.
Un libro che porterei su di un’isola è uno dei miei libri preferiti, Persuasione
di Jane Austen.

Quali scrittori, tra i contemporanei, o
quelli del passato, ami particolarmente e per quale motivo? C’è qualcuno di essi
al quale ti sei ispirato?
Tra i contemporanei, apprezzo molto Ken
Follett, o anche scrittori di romanzi sentimentali come Nicholas Sparks o Mark
Levy, che scrivono il mio genere. Ho avuto l’onore di conoscere di persona Ken
Follet alla presentazione del suo ultimo libro dove ci siamo scambiati i
rispettivi romanzi. Non si aspettava di vedersi dare un altro romanzo, gli ho
scritto una bella dedica: “Ho letto Hemingway Faulkner e tutti i più grandi
scrittori americani, ma quando leggo uno dei suoi romanzi sono orgoglioso di
essere diventato uno scrittore. “ I Pilastri della terra”, penso che sia uno dei
romanzi più belli che siano mai stati scritti. Fu pubblicato in Germania senza
avere molto successo, solo in seguito è stato rivalutato.
Ci sono un fatto, una persona, o un qualcosa cui dedichi i tuoi scritti?
Sinceramente cerco sempre di trovare delle dediche particolari, per esempio
l’ultimo l’ho dedicato a Vincent Papale; un giocatore di footbal americano
barista come me. Vincent fece un provino e fu preso proprio come è successo a
me. Il mio penultimo romanzo è dedicato ad una ragazza narcolettica, che
purtroppo non c’è più, le mie sono tutte dediche ponderate.
Quanta autobiografia c’è in un’opera
letteraria?
C’è un pò di me in ciascuno dei
personaggi, sia maschili, che femminili. La passione per l’arte, o il modo di
vivere l’amore, le loro vite, le loro storie, nascono e muoiono nel romanzo.
Qualche cosa c’è di me, ma non è così marcato. E’ più uno spazio aperto sulla
fantasia. E’ come se raccontassi a una persona un film che ho visto, cerco di
descriverlo nel miglior modo possibile e quindi i miei sono personaggi fini a se
stessi. Spesso nei romanzi ci sono riferimenti autobiografici, i nomi dei
personaggi sono quelli delle mie figlie, o delle mie compagnie.
Come concili il tuo lavoro
nel bar, con il ruolo di padre di due bambine e la passione per la scrittura?
Quando trovi il tempo di scrivere, o qual è il momento più creativo per te?
Sicuramente non è molto semplice
conciliare queste tre parti importanti della mia vita.
Per scrivere mi alzo un’ora prima la mattina, scrivo tre quarti d’ora e poi mi
preparo per andare a lavoro, mi dedico alle mie figlie, rubo un’ora al sonno per
scrivere le mie storie.
Per rappresentare il mio libro a Milano mi sono svegliato alle quattro di notte,
ho preparato tutto, affinché mia madre avesse meno da fare, sono corso
all’aeroporto, ho fatto appena in tempo a prendere l’aereo, sono arrivato a
Milano ho fatto la presentazione, ho firmato le copie dei miei libri, di corsa,
ho ripreso l’aereo, sono tornato a Roma in tempo per chiudere il bar.
In poche parole sono passato dalla presentazione di un libro al lavare il
pavimento del bar.
Ho fatto presentazioni a Piacenza, Genova, Milano, tutte così, anche perché
cerco di non pesare sui miei genitori al negozio. Trovare la passione per la
scrittura, la stima delle persone, mi spinge e mi dà la forza di continuare a
fare sacrifici per scrivere.
Racconti le favole, o i
tuoi romanzi alle tue bambine?
Ultimamente la più grande si è
appassionata di Stephanie Meyer che è una scrittrice bravissima. Ho sempre amato
leggere alle mie figlie i libri fantasy che leggevo io.
Il primo libro che ho letto è stato le Nebbie di Avalon, questo è per me, uno di
quei componimenti che crea una nicchia, dove rimane per sempre.

Ti ringraziamo per la tua
gentilezza, disponibilità e umiltà, infine ti chiediamo di anticiparci, se vuoi,
qualche altro tuo lavoro imminente, o in cantiere.
C’è un romanzo che vedrà la luce nel
giugno prossimo ed esula dal mio genere quotidiano. E’ la storia di una
sacerdotessa della religione Wikka che s’innamora di un sacerdote; una tematica
molto complessa, gotica. L’ambientazione è sempre l’America, Boston e Salem che
è la città delle streghe per eccellenza. Credo che sia una bella storia d’amore,
che fa conoscere un’altra tipologia di figura di donna, che è accomunata al
malefico al male. Questo libro farà scoprire a tante persone qualcosa che magari
adesso vedono in maniera distorta. Il libro è fantasy – storico - thriller,
totalmente diverso da quelli pubblicati finora, le poche persone che l’hanno
letto in anteprima sono rimaste molto entusiaste.
Pensando a un aforisma,
una frase che può rappresentare e lasciando un messaggio a un tuo potenziale
lettore, cosa vorresti fargli sapere ?
Una cosa che posso regalare ai miei
lettori è la scoperta di un video. Andando su Youtube digitare Steve Jobs
Stanford University, praticamente è il discorso che fece Steve Jobs nel 2005
alla consegna delle lauree a Stanford, dura dieci minuti e penso che ciascuno di
noi dovrebbe ascoltarlo, perché ci fa capire molte cose.
In particolare nella parte finale dice, che noi abbiamo poco tempo da vivere su
questa terra e di non sprecare questi giorni vivendo la vita di qualcun altro,
ma cercare la cosa che amiamo di più fare, avendo fede e seguendo i nostri
sogni. Lui finisce il discorso dicendo: “Siate affamati, siate folli”. Vale la
pena ascoltarlo, dalla prima parola all’ultima.
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