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Non solo una delle figure
più originali che la scena nostrana abbia mai avuto, ma soprattutto uno degli
artisti che ha generato il neapolitan power degli anni Settanta: un sound nuovo,
innovativo.
James Senese, un grande personaggio, che nonostante i quarant’anni di carriera
alle spalle, non ha perso l’entusiasmo degli esordi.
Come ha scoperto il suo talento e la sua passione per la musica jazz?
All’età di 13 anni sentivo di
poter suonare uno strumento, era un talento innato, un fatto naturale.
Io somigliavo a Jimy Hendrix e perciò mi comprarono la chitarra e me la misero
tra le mani, io dissi: “non è il mio strumento”.
Io sono vissuto in una famiglia povera, mio nonno principalmente mi ha aiutato,
era un decoratore di statue e con questo lavoro mi cresceva.
Ho studiato sempre privatamente, e poi sono andato avanti per la mia strada. Il
mio era un talento naturale nella mia famiglia non c’erano radici musicali.
Quali canzoni del passato in qualche modo hanno ispirato la sua creatività?
Non c’è stata un’ispirazione
ma un linguaggio acquisito nella pancia di mia madre a 2 mesi, poi un suono che
sentivo provenire da quelle canzoni antiche dell’800 e del ‘900 che mio padre si
portava con se. Mia madre mi faceva ascoltare molta musica jazz americana, lo
swing di allora, che lei amava, essendo mio padre afroamericano.
Può parlarci degli esordi della sua carriera musicale?
Nella mia adolescenza suonavo
nei club americani a Napoli, il night club era una forte attrazione. Ho suonato
in tutti i club d’Europa facendo la gavetta, dai 16 ai 20 anni e mi sono fatto
le ossa.
Questa mia passione poi si è allargata ed è diventata professionale, ho
congiunto arte e professione insieme e questo mi dava qualcosa in più.
Il primo gruppo che abbiamo creato, all’età di 14-15 anni, era chiamato: “Gigi e
i suoi aster”, all’età di 14-15 anni, poi sono venuti i “4 con”, il mio secondo
gruppo, decisamente più professionale.

La sua esperienza con gli
Showmen?
Il mio primo vero gruppo si
chiamava gli “Showmen”, l’ho creato a 18 anni ed è stato per 7 anni un gruppo di
successo a livello internazionale. Il cantante Mario Musella, morto di cirrosi
epatica all’età di 36 anni, era ed è tuttora insuperato, la sua voce era
eccezionale, insieme abbiamo realizzato canzoni come: "Un'ora sola ti vorrei",
"Gloria, ricchezza e te", "Sto cercando", "Mi sei entrata nel cuore".
Dopo gli showman ho cominciato a rivedere la mia anima e con il batterista
Franco del Prete abbiamo costituito “Napoli Centrale”, che è stato un gruppo
eccezionale.
“Napoli Centrale” è il primo gruppo napoletano a fare la rivoluzione, negli anni
’70. Noi siamo stati il gruppo più imitato in Italia. Il gruppo era formato dal
tastierista americano Mark Harris e da Tony Walmsley bassista e paroliere,
inglese, io ero il compositore, leader cantante solista; siamo stati in tournèe
in America e in tutta l’Europa.
L’esperienza di Napoli Centrale è durata dal ‘74 al ‘79. Il successo che
proveniva dal gruppo degli “Showmen” si trasferì sul nuovo gruppo. Sono molto
inpegnato nel sociale, nel senso che Napoli centrale è stato un gruppo molto in,
affermato, per gli addetti al lavoro di un certo livello.
Non facevamo musica di protesta, la vera rivoluzione è stata la nostra musica,
il linguaggio nuovo che proponevamo.
La lotta per i diritti civili dei neri e di altre minoranze, il rifiuto della
guerra del Vietnam e, non ultimo, il colossale choc provocato dall'assassinio
del presidente Kennedy, come ha vissuto il ’68 e gli anni della contestazione?
Io ho assorbito quello che è
accaduto in America difatti una parte di me è americana. Questo l’ho trasmesso
nella mia musica. Ho vissuto il ‘68 provenendo da una cultura del Sud, di
povertà estrema e tutto il mio sapere, tutto il mio animo l’ho messo nelle mie
composizioni.
Provenivo da Miano, un paese di 700 abitanti e finalmente uscivo e vedevo il
sole, facevo la rivoluzione per quello che vedevo e sentivo. Il ‘68 è stato un
fatto rivoluzionario tremendo, la gente si spogliava nuda, io mi ricordo di
quest’evento in una serata al Parco Lambro durante un mio concerto.
La mia rivoluzione è consistita essenzialmente nel suonare una musica che non
era suonata in Italia, molto più vicina al jazz, che alla musica contemporanea
italiana. Jimy Hendrix era un bluesman e aveva portato la sua rivoluzione in
Inghilterra, io avevo portato a Napoli la mia come jazzman.

Lei è uno dei padri fondatori di tutto il movimento musicale denominato
“Neapolitan Power”, e a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 inventa il “Rhythm and
blues” all’italiana, cosa può raccontarci di quel periodo?
Io credo, non per
presunzione, che la mia rivoluzione sia stata troppo forte, abbiamo creato un
modo diverso di sentire ed è stato per me un fatto naturale creare qualcosa che
non esisteva. Lucio Battisti era il primo cantante che cantava in un certo modo,
quando sei molto avanti trovi difficoltà nel farti capire o gestire dal sistema.
Ho sperimentato spesso numerose difficoltà nell’essere compreso.
La rivoluzione è stata fatta musicalmente. Non è la musica che è rivoluzionaria,
i migliori jazzisti americani non fanno musica d’avanguardia ma trasmettono
attraverso la musica i propri sentimenti di pace.
Uno strumento serve per tirare fuori dalla propria anima i sentimenti di pace
tramite le note. Io sono nato nero in una società dove tutti sono bianchi e per
un fatto culturale mi sono trovato sempre a disagio e l’ho espresso nelle mie
composizioni.
Jimy Hendrix esprimeva un complesso, di essere diverso, ed è questo che ti fa
aprire porte che gli altri non possono aprire. Ad esempio se guardi la tv, il
concetto del ‘bello’ è quello che domina, è un’idea oppressiva che uccide e
marchia le coscienze.
L’arte in se stessa nasce sempre da una grande sofferenza, tutti i grandi
musicisti e pittori hanno fortemente sofferto, come Ligabue, soffriva per la sua
bruttezza. Io ho sofferto sempre del complesso di essere nero. Ma l’espressione
musicale è diversa è un fatto naturale, è come un rapporto tra un uomo e una
donna..
Com’è nato il suo sodalizio artistico con Pino Daniele?
Pino Daniele è stata una mia
scoperta. Pino sentì “Napoli centrale” per la prima volta e mi chiese di suonare
con me, è stato un anno circa con il mio gruppo e abbiamo avuto modo di
conoscerci. Lui ha scoperto me e io lui.
Pino Daniele non era addentrato nel jazz e nel suol e ha fatto tesoro della mia
musica. In seguito abbiamo collaborato e abbiamo creato insieme album come: “Vai
Mo’” e “Nero a Metà”.

Quali musicisti del
passato in qualche modo hanno ispirato la sua creatività?
I miei ispiratori ideali io
li vedo negli uomini che sono stati e sono oggi la mia essenza, Miles Davis,
John Coltrane.
Io stimo John Coltrane per la sua semplicità, era un uomo forte dentro e molto
debole all’esterno. Sullo strumento diveniva massacrale, faceva fuoriuscire
tutta la sua anima e il suo modo di essere in maniera terribile.
Il musicista riconosce nello strumento se stesso, è un dono che non hanno tutti
quanti, questo è una grande fortuna, Jimy Hendrix come fatto naturale ha
bruciato la chitarra.
Quando sei sullo strumento fai parlare la tua anima e per scoprirla ci vuole
molto tempo ed è uno sforzo sovrumano, i miei idoli sono questi musicisti del
passato.
Da sempre aveva tra i suoi progetti quello di comporre musica?
Sì, comunicare i miei
sentimenti e i miei stati d’animo mi viene naturale. La mia cultura è il suono.
Riesco nella mia composizione, per un fatto naturale e anche se cambiava tutto
intorno a me, io non sono cambiato affatto. Il sistema cambia per un fatto
economico e di business, io non sono mai voluto entrare nel sistema come
volevano loro.
Il Blues è cosi, tutti i più grandi la pensano allo stesso modo, io credo che un
giorno scopriranno la mia musica, sono felice quando accendo la radio e sento la
mia musica di sottofondo a qualche Tg importante, so che qualcuno ha scoperto
quello che io volevo.
Che cosa ne pensa della sua città? In occasione del concerto in Piazza
Plebiscito ha dichiarato: Noi artisti – dice – cerchiamo sempre di dare il
massimo per la gente, che sia pubblico pagante, o meno. Strano che le
istituzioni non cerchino mai di fare altrettanto…
Vorrei far tornare Napoli
com’era nel 1960. C’è gente che ha scelto il diavolo, la parte negativa
dell’essere umano, io ho imparato a dare, dare sempre di più di me stesso e a
capire gli altri.
Spesso ho pensato di espatriare da Napoli e andare via dall’Italia, verso
l’America.

Se non avesse fatto il
musicista, che cosa avrebbe voluto fare?
Mi piace molto la fisica e
avrei voluto fare l’astronauta.
Ha collaborato con i più grandi artisti della canzone italiana, cosa vorrebbe
dire e quali consigli potrebbe dare ad un giovane artista emergente nel mondo
della musica-spettacolo?
Ad un giovane artista
consiglio di seguire la tradizione, non potrà mai fare musica vera e propria
senza confrontarsi con il passato.
Quando suona cosa pensa James Senese e quando non suona cosa fa?
Quando suono vado in un’altra
dimensione, non penso più a quello che devo fare, ma a quello che vorrei, per
questo sono riuscito a distinguermi dagli altri, la ricerca che c’è dentro di me
è molto forte. Quando tocchi qualcuno nell’anima, non si può fare a meno di
togliere quella spina che qualcuno ti ha messo nel petto, ti ha fatto vedere
quello che tu non volevi vedere, come Jimy Hendrix che non ha resistito e si è
suicidato. Il mio pensiero è sempre rivolto al domani, ho il dono di riuscire a
pensare al futuro.
Può darci qualche anticipazione, quali i suoi progetti per il futuro?
Abbiamo molti scambi con gli
Usa e a maggio tornerò a New York, devo andare dove mi porta la mia anima, il
progetto è mettere fuori anche qualcosa che agli altri può sembrare strano, una
parte di me nuova.

La ringrazio per avermi dato la possibilità di realizzare questa bella
intervista e spero di avere l’occasione d’incontrarla ancora, in un prossimo
futuro.
Grazie a lei e alla
vostra Redazione.