Prima
della festa di Pasqua Gesù,
sapendo
che era giunta la sua ora di
passare
da questo mondo al Padre,
dopo
aver amato i suoi che erano nel
mondo,
li amò sino alla fine (Gv 13,1).
In
questi giorni c'è un gran parlare della passione di Gesù grazie
all'ultimo evento cinematografico: il film di Mel Gibson "The Passion".
Non voglio entrare nel merito del film perché, non avendolo visto,
rischierei di dispensare sentenze del tutto gratuite; certo è, comunque,
che gli eventi della passione di Gesù non sono una novità per nessuno e
tanto meno per i credenti. Da sempre la cristianità ha meditato sulla
passione del suo Salvatore e ne ha fatto particolare memoria nella
giornata del Venerdì Santo (il venerdì prima di Pasqua) e comunque in
tutti i venerdì dell'anno.
Non
vorrei soffermarmi sulla dinamica dei fatti, che credo non sia stata
assolutamente "eccezionale" in quanto le esecuzioni capitali
venivano comminate piuttosto spesso, ed in quanto Gesù per i dominatori
romani non era altro che uno dei tanti esaltati che periodicamente
agitavano i già agitati animi dei giudei. Inoltre, ricordiamoci, il
condannato di turno era un certo Barabba e tutto era preparato per lui;
solo all'ultimo momento ci fu lo scambio tra lui e Gesù. Quindi Gesù ha
subìto gli stessi disumani trattamenti ed ha sofferto le stesse
indicibili sofferenze che subiva e soffriva qualsiasi altro condannato di
quell'epoca.
Voglio
invece soffermarmi sul significato unico di tale Passione in quanto
accettata volontariamente e sofferta dal Dio-fatto-Uomo, Gesù di Nazaret,
l'Unto di Dio.
L'ora
di Gesù
La
passione e la morte di Gesù sono un «gesto» che vale una vita, perché
esprime nel modo più efficace il senso della sua esistenza terrena e
tramanda nel modo più incisivo la memoria del suo amore.
L'intera
vita passata a Nazaret, il battesimo al Giordano, le tentazioni, i
miracoli, la cacciata dei demoni, la predicazione e la sofferenza umana
alla quale volontariamente Gesù si assoggetta, tutto è proteso
verso questo compimento, che egli chiama la sua «ora»: l'ora di passare
da questo mondo al Padre, l'ora di essere da lui glorificato, di morire
per portare frutto.
L'ora
della croce è attesa da Gesù come un altro battesimo, quello del
sangue.
I
quattro Vangeli danno largo spazio e ricchezza di particolari agli
avvenimenti degli ultimi giorni: cena, arresto, processo, supplizio. Le
prime comunità cristiane ritennero indispensabile per la nuova fede
sottolineare insieme alla risurrezione di Gesù, il valore della sua morte
dolorosa. L'apostolo Paolo non esiterà a predicare «Cristo crocifisso»,
anche se ciò suona «scandalo» e «stoltezza» per molti .

Incontro
alla morte
Dal
cenacolo, dove aveva celebrato la Pasqua ebraica insieme con i suoi
discepoli, Gesù passa all'orto degli ulivi, dalla cena alla passione,
dall'offerta di sé nel segno del pane e del vino, all'immolazione come
vittima del sacrificio.
E’
preso dall'angoscia, la solitudine l'opprime. Anche i Dodici, perfino i
tre più vicini, lo hanno lasciato solo in quest'ora. All'amore di
chi si dispone a dare la vita per loro, risponde il sonno pesante degli
uomini. Occhi aggravati e spenti, vicino all'amico gravato del peso di una
straziante agonia.
Gli
apostoli che non riescono a pregare sono ancora «carne». Gesù
obbediente al Padre fino alla morte, è «spirito» che riesce ad
assoggettare la carne, a prezzo di una sofferenza indicibile.
L'ubbidienza
di Gesù alla volontà del Padre nell'orto degli ulivi solleva una domanda
riguardo alla sua morte: fu essa prevista da lui, o lo colse di sorpresa?
Fu la conseguenza inevitabile della sua intransigenza verso il potere o
anche l'offerta consapevole di sé per la redenzione degli uomini?
Gli
evangelisti tre volte riportano le parole con le quali Gesù preannunziava
la sua passione e morte a Gerusalemme. Egli va a Gerusalemme non per
combattere e coprirsi di gloria, ma per restarvi vittima dell'odio e della
gelosia dei potenti
Difatti
sapeva bene che il suo comportamento gli attirava inimicizie pericolose.
La minaccia di toglierlo di mezzo da parte di Erode, un re senza scrupoli,
era una eventualità possibile. Il risentimento delle autorità religiose,
come quando scaccia i mercanti dal tempio, doveva chiaramente dargli la
sensazione che attorno a lui si tramava per ucciderlo.
Ma
tutto ciò per Gesù rientrava nella visione della storia della salvezza:
essa non poteva compiersi senza il sacrificio dei suoi annunziatori, i
profeti: la storia della salvezza era stata una serie ininterrotta di
martiri, giusti e profeti.
Gesù
non poteva aspettarsi sorte diversa. Consapevole di ciò egli rivolge a
Gerusalemme l'accusa di uccidere gli inviati di Dio e perfino «il Figlio»
con il quale egli chiaramente si identifica.
Ma
l'atteggiamento di Gesù di fronte alla sua fine tragica non può essere
confuso con il distacco sprezzante dalla vita. E’ uomo come tutti, che
piange con angoscia e chiede aiuto agli amici perché veglino e preghino
con lui; negli spasimi del supplizio Gesù soffre atrocemente nella carne
e nello spirito, e sperimenta in tutto il suo essere il dolore e la
solitudine dell'uomo.
Gesù
è andato incontro alla morte con piena libertà e decisione, come ad un
atto supremo di amore al Padre e agli uomini.
Per
i peccati del mondo
Gesù
ha previsto la sua morte tragica e l'ha affrontata. Ma ciò non
toglie né diminuisce la responsabilità di coloro che l'hanno
voluta. Gli evangelisti hanno documentato passo per passo l'avversione dei
responsabili religiosi d'Israele verso Gesù. Il loro dissenso cresce e
coinvolge anche la massa, fino a strappare all'autorità romana una
condanna a morte.
Davanti
al Sinedrio Gesù viene condannato in base alla sua esplicita
dichiarazione d'essere «il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio».
Una affermazione del genere suona bestemmia per Caifa e per il Sinedrio,
perché rappresenta un'attribuzione di prerogative divine. Agli occhi del
popolo Gesù viene quindi accusato come bestemmiatore e falso profeta.
Ma
al di là di questa motivazione ufficiale, doveva essere stato
determinante l'atteggiamento provocatorio di Gesù che contestava il loro
modo di gestire il potere religioso e la loro pretesa di porsi come guida
assoluta della fede e della morale del popolo di Dio.
Per
l'autorità romana invece, la sola che a Gerusalemme aveva competenza di
condannare a morte, l'accusa di Messia, per i suoi risvolti politici,
poteva avere un peso decisivo.
Presso Pilato Gesù viene denunziato perciò come agitatore
politico, uno di quelli che periodicamente turbavano l'ordine stabilito in
Giudea dalle legioni romane e guidavano le sommosse dei nazionalisti . Per
questo tipo di nemici politici, e per gli schiavi, la legge di Roma
prevedeva la condanna a morte con il supplizio della croce.
Per
Pilato, che pure si rende conto della infondatezza delle accuse, contano
considerazioni di carattere politico, poste in chiara evidenza dai vangeli
nel racconto della passione di Gesù.
Ma
la morte di Gesù non può essere compresa, se si cerca di motivarla con
ragioni di puro ordine storico. I pochi che in varia misura sono stati
responsabili della sua uccisione sono soltanto i rappresentanti del
peccato più universale, profondamente radicato in ogni uomo, in ogni
popolo e in tutte le epoche.
La
fede del Nuovo Testamento vede nella morte di Gesù un atto salvifico di
Dio e una donazione libera di Cristo: egli «morì per i nostri peccati»,
afferma l'apostolo Paolo. Cristo è morto dunque "a causa dei
peccati di tutti gli uomini e per la loro salvezza".
«Ecco
l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo»
La
morte di Gesù "per i nostri peccati" non è semplicemente morte
"a motivo" dei nostri peccati, ma è anche soprattutto
morte "a vantaggio" di noi, che siamo peccatori.
L'agnello immolato percosso a morte a causa dell'iniquità del popolo
(come dice il profeta Isaia) è anche "l'agnello di Dio che toglie i
peccati del mondo" (come dice l’evangelista Giovanni). Non solo
sopporta il peso di quest'iniquità, ma prendendolo su di sé, libera da
questo carico tremendo e fatale l'umanità. Il vangelo di Giovanni ha
voluto esprimere tale convinzione accostando la figura di Gesù crocifisso
a quella dell'agnello pasquale immolato a vespro, senza che gli sia
spezzato alcun osso.

La
risposta definitiva alla domanda non sarà data tanto dalla passione del
Signore, quanto dalla sua risurrezione: allora si manifesterà come il suo
assoggettarsi al peso del peccato non sia semplice eroismo tragico, ma sia
l'atto di chi può caricarsi di quel peso senza esserne schiacciato, perché
sostenuto dalla speranza di vincere la lotta contro le forze mortali
scatenate dall'iniquità degli uomini.
La
prospettiva di salvezza dischiusa dalla morte di Gesù appare ancora più
esplicitamente nella sua preghiera in croce:
«Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno».
Questo
è l'atteggiamento con il quale Gesù accetta e addirittura va incontro
alla croce, che il peccato del mondo pone sulle sue spalle. La verità
della sua speranza sarà rivelata dal gesto di Dio Padre che lo farà
risorgere, perché nelle sue mani egli consegna il proprio spirito.
Non
è il patire che Gesù ha cercato camminando incontro alla sua morte, ma
l'obbedienza a Dio, la verità e l'amore per l'uomo. Se questa ricerca
lo ha condotto al Calvario, non è in esso che egli riconosce il termine
del suo cammino.

La
Croce di Gesù
La
croce per Gesù è soltanto il prezzo della fedeltà e dell'amore.
La croce è il luogo in cui diventa possibile conciliare il giudizio e il
perdono nei confronti dell'ingiustizia umana.
La
croce di Gesù invita gli uomini innanzi tutto a spogliarsi della toga di
giudici universali, ad essi non
adatta. Invita gli uomini ad aprire gli occhi sul loro personale peccato,
sulla loro personale complicità nei confronti dell'ingiustizia pubblica.
Invita gli uomini a pentirsi dinanzi a Dio e quindi a perdonarsi
reciprocamente.
La
croce di Gesù insegna agli uomini che l'amore vero è quello che accetta
di portare il peso della colpa altrui.
Oltre tutto, è molto difficile distinguere la colpa altrui dalla nostra,
e molti litigi nascono appunto da questa difficoltà. Non possiamo
liberare l'umanità dal male solo trovando il colpevole; ma possiamo
sempre farci solidali con coloro che dal male sono oppressi.
Mediante
questa solidarietà, la sofferenza stessa diventerà un carico più
leggero e la croce si trasformerà da strumento di tortura in strumento di
riconciliazione e di libertà. Mentre al contrario il rifiuto della croce,
dettato da paura o da orgoglio, perpetua inevitabilmente il contagio
dell'egoismo, la lotta dell'uomo contro l'uomo.
La
croce di Gesù non è soltanto modello da imitare. Essa ci restituisce la
libertà, la speranza, il coraggio per percorrere il cammino che Cristo ha
percorso. La croce di Gesù, se riconosciuta e creduta come mistero di
salvezza, ci fa nuovi, ossia ci fa giusti della giustizia di Dio. Ma
questa forza della croce viene a noi solo mediante la fede.
Arrisentirci
e buona Pasqua a tutti.
a
cura di Paolo
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